Non importa a quale Dio crediamo, e tanto più se
siamo atei. Dovremmo fare come i romani, nelle cui case non mancava mai la
nicchia in cui erano esposte le statuine dei Lari, gli antenati cui rendevano
onore. Noi dovremmo dedicare questo altarino domestico all’unica
santa che mette tutti d’accordo perché è trasversale ed ecumenica: la Santa
Pazienza. Da sempre, chiamiamo “pazienza” la facoltà di aspettare, rimandare, sopportare
e reagire in modo neutro o per lo meno misurato alle avversità, al destino che grava
su noi e di cui non conosciamo le reali intenzioni. E da sempre, sappiamo che
la pazienza è una virtù difficile da mettere in pratica, che è arduo tenerla in
vita oltre certi limiti fisiologici, rinnovarla dopo l’ennesima difficoltà o
delusione, perseverando con calma. Per questo motivo non è facile
armarsi di pazienza ma è facilissimo perderla. Oggi più che mai.
Eppure, ci fu un
tempo in cui la pazienza era una pratica diffusa, comune, stabile. Pensate a
quanta pazienza dovevano avere i nostri avi quando andavano a caccia o
pescavano ai fini della sopravvivenza. Pensate a quanta ne ebbe Giobbe, che
tollerò con saldezza d’animo le peggiori difficoltà. Anche Gesù ne aveva (la
perse solo al Tempio coi cambiavalute) e come lui tutti quelli che scelsero di
vivere nel deserto per trovare Dio o più semplicemente se stessi. E vogliamo
parlare della pazienza dei certosini e di quella di Penelope, che faceva e
disfaceva la sua tela ogni giorno? Molti esempi di come la pazienza sia
ammirevole ce li offre la letteratura, che è lo specchio fantasioso del genere
umano. Penso alla pazienza dei personaggi di Dickens, capaci di sopportare infinite
angherie e non demordere, o a quella di Proust, che non sfinì l’autore ma
sottopone il lettore a una prova estrema, o ai marinai di Melville (su tutti il
capitano Achab) e al capitano Drogo del Deserto
dei Tartari di Buzzati. Potrei fare altri esempi, citando Dostoevskij,
Kafka, Hemingway, Conrad, Marquez e via di seguito. Mi limito a parafrasare
Giacomo Leopardi, che di pazienza ne aveva così tanta da perdersi nell’infinito:
“La pazienza è la più eroica delle virtù giusto perché non ha nessuna apparenza
d’eroico”. In effetti, l’attesa, la sopportazione e l’accettazione non producono
adrenalina. Più che pazientare ci piace abusare della pazienza altrui. E a chi
ci ricorda che la pazienza è la virtù dei forti verrebbe voglia di rispondere,
alla maniera di Kant, che “la pazienza è la forza del debole così come l’impazienza
è la debolezza del forte”.
Ho come la sensazione che oggi la pazienza non sia
più considerata una qualità ma un limite, e ciò avvalorerebbe la riflessione di
Kant. Di fatto, il mondo è cambiato e con esso la percezione del tempo e la
nostra disponibilità a tenere ritmi lenti, a differire, ad accettare i rinvii e
le avversità. Siamo nemici giurati della sala d’attesa e delle sue logiche
irritanti. Io lo sperimento ogni settimana, al Pronto Soccorso degli ospedali
del territorio in cui vivo. Sono sempre pieni di gente che aspetta il proprio
turno per essere visitata, e molti non sanno aspettare, non più di tanto. Privi
di pazienza, si arrabbiano con gli operatori sanitari per il tempo che perdono,
che ritengono sia stato loro “rubato”. Purtroppo, viviamo in una società che
istiga all’impazienza, al tutto e subito, mentre dovremmo vivere in un mondo
che esalta il qui e ora, la capacità di godere appieno dell’attimo fuggente,
cioè del presente, anche quando si configura come una pausa. Ma chi l’ha detto
che dobbiamo sempre correre, che è necessario assecondare i dettami della
fretta e convivere con lo stress? Non sappiamo più fermarci e aspettare né
accettare gli accadimenti quando non corrispondono al nostro volere. Sembra che
qualcuno ci incalzi, ci opprima, ci costringa a correre. Le sospensioni, gli
intervalli e i buchi vuoti sono da noi considerati una iattura. Lo riscontriamo
ogni volta che siamo in fila o ci viene ventilata la possibilità che la riposta
tarderà. Invece, è così bello vivere nell’attesa che le cose capitino in
maniera naturale, spontanea, senza forzarle e arrabbiarsi se sono in ritardo.
Mi rendo conto, tuttavia, che il mio punto di vista è un frutto della maturità.
Ho imparato gradualmente ad avere pazienza, a portare pazienza. Con il passare
degli anni mi sono fatto una ragione di ciò per sopravvivere, per salvare il
fegato, per preservare il cuore.
Forte della consapevolezza acquisita e del
fatto che oggi sono molto più paziente di una volta, mi va di suggerire ai più
giovani le istruzioni per l’uso di cui necessità chi non ha ancora imparato che
ogni peso è più leggero se portato con pazienza. Ebbene, la pazienza necessita
di concentrazione. Poiché l’impazienza è un cavallo selvatico, bisogna
imbrigliarla e per riuscirci serve contare fino a dieci e fissare la mente
sull’attimo presente. Occorre avere coscienza di ciò che facciamo nel mentre.
Dopo è tardi. Un passo fondamentale per innalzare la soglia della nostra
pazienza è accettare noi stessi, coi nostri limiti, la nostra finitezza. Ciò
consente di avere pazienza verso gli altri, che non sono poi così diversi da
noi. Inoltre, è indispensabile fare pratiche sane e avere atteggiamenti
positivi. L’esercizio continuo delle discipline orientali – dallo yoga alla
meditazione, dal Tai chi al Qi Gong – allena il nostro spirito e mutua il
nostro comportamento, rendendoci meno impazienti. Dobbiamo accettare che il
tempo scorra, il che non significa sedersi sulla riva del fiume e aspettare non
si sa chi o cosa, ma adeguarsi al fluire di un fiume docile, attendendo che le
cose accadano quando devono accadere.
Significa camminare a passo lento ma sicuro. Vuole anche dire osservare
la vita, la realtà circostante, sorridendo di chi si agita come se fosse stato morsicato
dalla tarantola. Le opportunità possono presentarsi alla tartaruga non meno che
al ghepardo. Sant’Antonio di Padova predicava che la pazienza è il baluardo
dell’anima, la presidia e la difende da ogni perturbazione. È vero; fare l’uso
giusto della pazienza ci mette al riparo. Perché la sua potenzialità è
incredibile; la pazienza è l’arma con cui possiamo stupire gli altri,
disorientarli, disarmarli. E se proprio non riusciamo a imporci un regime di
pazienza funzionale, non ci resta altro da fare se non raccoglierci davanti
all’altarino virtuale di Santa Pazienza e impetrane l’aiuto. Scherzi a parte,
la pazienza vince la scienza ed è una delle espressioni più intime del sentire
religioso. A volte, fa miracoli.