C’è un posto, nel
mondo, così silenzioso che nessuno è stato capace, fino ad oggi, di restarvi
per più di 45 minuti. Si trova nello stato americano del Minnesota ed è un
luogo artificiale, una camera anecoica dalle pareti isolanti spesse oltre 3 m.
all’interno della quale il silenzio è quasi totale. Questa stanza impermeabile
anche al più piccolo rumore (ne viene assorbito il 99,9%) è stata creata nel
2004 dalla Orfield Laboratories e costituisce una sorta di banco sperimentale,
utilizzato, fra gli altri, dalla NASA. Chiunque abbia accettato di provare il
silenzio integrale, “assordante”, che forse è riscontrabile, in Natura, solo nella
stratosfera o all’interno di una caverna profondissima, ma a determinate
condizioni, non ha saputo resistere nemmeno un’ora. Pare che l’esperienza
extrasensoriale nel luogo più silenzioso della Terra sia insopportabile e
provochi uno squilibrio mentale. Forse il nostro udito, ormai assuefattosi
all’inquinamento acustico, è refrattario all’assenza di suoni, e il nostro
cervello ha bisogno di stimoli continui. Ebbene, restare chiusi in un posto buio
dove non si odono vibrazioni, scricchiolii e fruscii e perciò la rumorosità di
fondo è di – 9,4 decibel (mentre una normale conversazione ha un volume di ca.
60 decibel), mette a dura prova il nostro intelletto e insieme lo spirito. Sta
di fatto che il silenzio ci disorienta e crea angoscia nell’animo. Occorre
sottolineare un fatto curioso: più siamo immersi nel silenzio, tanto più sono
le cose che sentiamo. Quali? Il battito del nostro cuore, il nostro respiro, lo
stomaco che brontola, ecc. Sentiamo anche i nostri pensieri e la voce della
nostra coscienza, abitualmente soffocata dai clamori del mondo. Credo che solo gli
audiolesi siano in grado di sostenere questa condizione estrema, giacché il
silenzio, che il Talmud considera “il rimedio di tutti i mali”, è per l’uomo
contemporaneo una sorta di supplizio.
L’altro giorno, dovendo iniziare il turno
di soccorritore volontario in Croce Azzurra alle 6h del mattino, ho avuto modo
di apprezzare il silenzio che precede l’alba nel giardino di casa mia. Non era
un silenzio totale; gli uccellini iniziavano a fare gazzarra. Però non davano
disturbo, il loro cinguettio non era invasivo né continuo come i suoni che
avrebbero riempito l’etere di lì a un paio d’ore, soprattutto il rumore delle
automobili e delle attività umane, fra cui il logorroico, inutile travaso di
parole dalle bocche. Mi sono goduto quei momenti di pace, ho assaporato con voluttà
il silenzio che invita alla riflessione e alla contemplazione, che ritempra e
da sempre costituisce l’anima delle cose. Le stesse sensazioni, per altro, è
facile coglierle nel cuore della notte o nei luoghi più isolati. Mi è capitato
spesso d’immergermi in un silenzio ristoratore e di fare silenzio dentro di me,
così da udire il canto della mia anima. È una sensazione bellissima,
un’emozione forte e piacevole. Ed è, effettivamente, un rimedio. Seneca diceva
che “le miserie della vita insegnano l’arte del silenzio”. Parole d’oro, come
il silenzio per l’appunto. In questi giorni mi è capitato di meditare su come
l’uomo rifugga il silenzio, lo tema a causa degli interrogativi che suscita, quasi
ci costringa a prendere coscienza della nostra vacuità, della stupidità con cui
agiamo, degli errori che commettiamo in nome del progresso, del benessere,
dell’interesse. Invece, mai come in questo momento dovremmo cercare il
silenzio, entrare in intimità con noi stessi. L’umanità è disorientata perché è
frastornata. Il rumore scandisce la nostra vita, la abbruttisce. E sia chiaro,
non mi riferisco solo ai rumori prodotti dalle macchine, dal lavoro, dai
fenomeni atmosferici e artificiali, dagli ingranaggi e dagli apparecchi
mefistofelici a cui ci unisce un invisibile cordone ombelicale, a cominciare
dal telefonino. Parlo soprattutto dei rumori che produciamo con la bocca: gli
sproloqui e i vaniloqui, le chiacchiere, gli schiamazzi, gli strilli, le
farneticazioni, le volgarità, i discorsi sterili e dannosi. In una parola, il
baccano che produciamo e di cui nutriamo chi si relaziona con noi. La baraonda
che induce nei sensi repulsione e insieme una sorta di orgasmo. È come se non
potessimo fare a meno di dare fiato alle trombe, di scoreggiare con la cavità
orale, discutere, inveire, gracchiare, esprimere il nulla limaccioso in cui
siamo immersi come rospi gracidanti nella palude. La verità è che ci piace
stare a mollo nel fango. Amiamo i pettegolezzi, adoriamo pavoneggiarci con le
frasi fatte o sciocche, usiamo l’intercalare come fosse prezzemolo e non ci
preoccupiamo del fatto che le parole non si possono infilare come le perle,
perciò sfuggono. Poco conta che il nostro vocabolario sia ridotto al lumicino,
che un nuovo analfabetismo avanzi. L’importante è che la lingua faccia
ginnastica. Rem tene, verba sequentur
– dicevano i latini. Afferra i concetti e le parole verranno da sole. No, non è
più così. Oggi le parole sono penose e i discorsi inutili, futili, stancanti.
Forse, il vero problema è che non ci sono i concetti; come possiamo aspettarci
frasi intelligenti? Basta guardarsi attorno. La televisione ha sancito la subordinazione
della parola rispetto all’immagine. Oggi conta solo l’immagine, possibilmente
arricchita di effetti speciali. I giornali non sono da meno, spendono parole
confuse per raccontarci che il mondo è prigioniero del rumore compulsivo che ha
creato. Ovunque si grida, si usa la parola per inebetire, confondere,
ingannare, offendere, esaltare il proprio Ego. Tutti fanno sfoggio di parole,
tanto non costano nulla, ma di quale qualità? La grammatica e la sintassi sono desaparecidos. Dai politici alle
massaie, è una sarabanda rintronante di sfoghi verbali, grida, propositi degni
di Pinocchio, deliri, vaneggiamenti frivoli. A che pro? Mark Twain diceva che
il rumore non dimostra nulla e faceva il caso della gallina che appena fatto un
uovo schiamazza come se avesse espulso dall’ano un asteroide. Beh, viviamo in
un’epoca in cui le persone schiamazzano come se l’asteroide l’avessero
avvistato e stesse precipitando sulla Terra. In realtà, hanno solo fatto
l’uovo. E così, assistiamo imbelli al trionfo di chi alza la voce e la usa come
uno schiacciasassi, di chi vomita parole ma non comunica o comunica concetti
sbagliati, di chi grida di più e perciò si aggiudica la vacca.
Bisogna
rassegnarsi. O forse no. Possiamo allontanarci dal putiferio, cambiare la
colonna sonora della nostra vita. Non è necessario recarsi nel laboratorio di Minneapolis,
esistono ancora tanti luoghi fisici – dai monasteri tibetani al Sahara, ma
anche un semplice bosco – e dimensioni dello spirito in cui ritirarsi per evitare il contagio. Al
pari della peste, l’ingordigia verbale ha ammorbato la società, l’ha
devitalizzata per eccesso di vitalità, tuttavia disponiamo di una medicina universale:
il silenzio fecondo e creativo. Riscopriamolo. Usiamo il silenzio come extrema ratio contro gli imbonitori, i
parolai, i ruminanti e i sacripante che offendono il nostro udito.
Di grazia, mostriamo a chi ci spacca i timpani (per tacere del resto) che un bel tacer non fu mai scritto.
Di grazia, mostriamo a chi ci spacca i timpani (per tacere del resto) che un bel tacer non fu mai scritto.
Oh come sono d'accordo con te......ma vorrei spendere una parolina in difesa della povera gallina che, appena fatto l'uovo canta per richiamare l'attenzione del fattore! Sono convinta che anche nelle fattorie ci sono "volponi" come i nostri politici pronti a rubare i prodotti più freschi e pregiati e le galline lo sannooo!!!!
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