Pietro
Mennea, l’uomo più veloce d’Italia, ha perso la sua corsa contro il cancro.
Adesso, finalmente, ha modo di sfidare i levrieri con le ali sulla pista dello
Stadio Olimpico dei Cieli. Per quelli come me che lo videro trionfare alle
Olimpiadi di Mosca e poi infrangere il record mondiale dei 200 m. a Città del
Messico, Menna resta una sorta di supereroe. Non aveva i muscoli e la statura
dei giganti americani e caraibici e non ricorreva ai beveroni e agli ormoni
come i velocisti dei Paesi dell’Est Europa. Insomma, non aveva le phisique du rôle eppure era un
fuoriclasse imprendibile. Con la sua struttura fisica nervosa e quasi gracile incarnava
il miracolo all’italiana. Si racconta che a quindici anni, a Barletta, dov’era
nato, sfidò una Porsche e un’Alfa Romeo su un percorso di 50 m. Le batté
entrambe, guadagnandosi 500 lire per pagarsi un panino o il biglietto del
cinema. Pietro era un predestinato, un Mercurio con le ali ai piedi, e la sua
epopea ebbe inizio nel 1980. In quell’anno mi laureavo, mi sposavo e iniziava
non solo per me ma per milioni di italiani la grande avventura degli anni
Ottanta. Anni che ricordo come l’era in cui anche l’Italia aveva le ali ai
piedi. Nel 1982 era Presidente della Repubblica quel galantuomo di Sandro
Pertini e vincemmo i Campionati Mondiali di Calcio. Che momento epico,
paradigma di una società fiera, allegra e vincente!
Nel ricordare con grande
commozione la scomparsa prematura della “freccia del Sud” non mi soffermerò
sulle sue glorie sportive e umane. In queste ore ne parlano soprattutto i
giornalisti sportivi, ben più accreditati di me a tessere lodi e inneggiare
peana. Io voglio approfittarne per un piccolo, semplice sfogo personale. Lo
confesso, rimpiango gli anni Ottanta. Non perché sono un laudator temporis acti o perché ero giovane e pensavo di
conquistare il mondo. È perché vivevo in un Paese vivo. Ho nostalgia del
periodo storico in l’Italia era una delle grandi potenze mondiali, una nazione libera
e rispettabile che mai avrebbe immaginato, un giorno, di rinunciare alla
sovranità nazionale e alzare bandiera bianca. Oggi è di moda demonizzare gli
anni Ottanta, definirli con disprezzo “anni di plastica”. Idiozie! In confronto
all’epoca scialba in cui viviamo come se fossimo anestetizzati, erano
straordinari. Va bene, si dirà, qualunque periodo dal dopoguerra in poi può
essere considerato più vivace dell’attuale, che è dominato dal pessimismo,
dalla mediocrità, dallo scoraggiamento, dal default
delle idee. Ma vuoi mettere il benessere di oggi con quello di 30/40 anni fa?
Ce lo metto eccome e il confronto, impietoso, penalizza l’oggi. Ai tempi in cui
Mennea vinceva, anche l’Italia era vincente. Adesso non lo è più, è una nobile
decaduta e perdente. Gli anni Ottanta, per chi li ha vissuti, restano l’età
dell’oro, in cui eravamo frementi, intraprendenti, fiduciosi. In quel tempo il
Paese cambiò pelle. Fu infatti il decennio di una svolta radicale negli usi,
nei costumi e nelle ambizioni. Le televisioni commerciali, producendo nuovi e
spesso inutili bisogni, modificarono la nostra forma mentis e di conseguenza un cambiamento antropologico che ha
poi portato per difetto di misura a una sorta di deriva. In realtà, fu il
decennio successivo, la lunga marcia verso il nuovo millennio a determinare
questa deriva, la crisi e la conseguente, progressiva decadenza degli italiani
e dell’Italia. Ed è come se con la fine degli anni Ottanta fossero cadute le
ali con cui avevamo cercato di spiccare il volo. Si trattava di un’utopia degna
di Icaro. Abbiamo smesso di correre, di volare e di sognare. Ci siamo
rassegnati alla nostra pochezza.
Ma com’erano gli anni Ottanta, gli anni di Mennea? A quelli che non erano ancora nati o troppo piccoli per ricordare, voglio dire che erano all’insegna della creatività, della voglia di vincere e vivere con la fronte alta, della tecnologia che ti cambia la vita (apparvero i primi home e personal computer) e del radicale cambiamento geopolitico (nel 1989 cadde il muro di Berlino). Erano gli anni dell’edonismo reaganiano e della Thatcher ma anche del craxismo e sebbene questa etichetta oggi puzzi di infamia, ricordo che il denaro circolava a fiumi, l’iniziativa veniva premiata, l’immagine del nostro Paese nel mondo era forte e rispettata. Andavamo fieri di essere italiani. Italians do it better, si diceva. Erano tante le cose che facevamo meglio e i meriti politici, sociali, culturali ed economici di allora sono immensi se rapportati ai demeriti di oggi. Basti pensare che la Fiat era la più importante casa automobilistica europea insieme alla Volkswagen, che avevamo ancora una grande industria e che il nostro debito pubblico era modesto. Ma già nel 1985, per una sorta di premonizione, cantavamo “l’estate sta finendo”. Come Icaro, per eccesso di ebbrezza, di lì a pochi anni ci saremmo avvicinati troppo al sole e le ali di cera si sarebbero sciolte. Pur tuttavia, di quel periodo non dimenticherò mai l’entusiasmo e il sorriso sulle labbra della gente. Sono scomparsi entrambi, sostituiti dalla rassegnazione, dalla rabbia, dal ghigno triste di chi ha paura di perdere quel poco che gli resta e che lo Stato e l’Agenzia delle Entrate cercano di rubare.
Ma com’erano gli anni Ottanta, gli anni di Mennea? A quelli che non erano ancora nati o troppo piccoli per ricordare, voglio dire che erano all’insegna della creatività, della voglia di vincere e vivere con la fronte alta, della tecnologia che ti cambia la vita (apparvero i primi home e personal computer) e del radicale cambiamento geopolitico (nel 1989 cadde il muro di Berlino). Erano gli anni dell’edonismo reaganiano e della Thatcher ma anche del craxismo e sebbene questa etichetta oggi puzzi di infamia, ricordo che il denaro circolava a fiumi, l’iniziativa veniva premiata, l’immagine del nostro Paese nel mondo era forte e rispettata. Andavamo fieri di essere italiani. Italians do it better, si diceva. Erano tante le cose che facevamo meglio e i meriti politici, sociali, culturali ed economici di allora sono immensi se rapportati ai demeriti di oggi. Basti pensare che la Fiat era la più importante casa automobilistica europea insieme alla Volkswagen, che avevamo ancora una grande industria e che il nostro debito pubblico era modesto. Ma già nel 1985, per una sorta di premonizione, cantavamo “l’estate sta finendo”. Come Icaro, per eccesso di ebbrezza, di lì a pochi anni ci saremmo avvicinati troppo al sole e le ali di cera si sarebbero sciolte. Pur tuttavia, di quel periodo non dimenticherò mai l’entusiasmo e il sorriso sulle labbra della gente. Sono scomparsi entrambi, sostituiti dalla rassegnazione, dalla rabbia, dal ghigno triste di chi ha paura di perdere quel poco che gli resta e che lo Stato e l’Agenzia delle Entrate cercano di rubare.
Nell’ora della sua scomparsa, vedo in Pietro
Menna l’espressione più sorprendente di un decennio che ha il sapore delle
imprese garibaldine. E mentre rivedo il filmato della sua incredibile e
vittoriosa rimonta sul britannico Wells nella finale dei 200 m. delle Olimpiadi
di Mosca, mi prende un groppo alla gola. Che nostalgia di quell’Italia volitiva
immortalata nell’urlo liberatorio di Tardelli ai mondiali di Spagna o nelle
braccia alzate al cielo di Saronni a Goodwood! Per tacere dei tanti successi in
campo sociale, culturale ed economico.
Addio Pietro, eroe buono e testardo di un’Italia che sapeva
gettare il cuore oltre l’ostacolo! Anzi, arrivederci.
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